In materia di diffamazione via web, la Corte di Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi nuovamente con riferimento alla pubblicazione di un testo offensivo tramite Facebook.

Nella sentenza n. 39805 depositata lo scorso 20 ottobre1, la Suprema Corte ha affermato che non è sufficiente appellarsi ad un ipotetico furto d’identità digitale per sfuggire ad una condanna per diffamazione sul famoso social network, poiché tale circostanza deve essere provata in concreto mediante «elementi obiettivi di conforto».

La pronuncia prende le mosse dal ricorso dell’imputato avverso la sentenza della Corte d’Appello di Caltanissetta che, confermando la decisione del Giudice di prime cure, aveva sostenuto l’esistenza di una responsabilità penale del ricorrente per il delitto di diffamazione per aver quest’ultimo pubblicato, sul proprio profilo Facebook e su una pagina del social denominata “Il quotidiano di […]”, un testo che, nell’ascrivere alla persona offesa il danneggiamento di una moto dell’imputato, affermava che la stessa fosse “schizofrenica certificata”.

Tra i cinque motivi del ricorso, in particolare, si deducevano la mancanza di prova della riferibilità del profilo Facebook incriminato all’imputato, nonché il vizio di motivazione avendo la Corte di merito ingiustamente disatteso la tesi difensiva atta ad accreditare il furto di identità. Su quest’ultimo punto, inoltre, a dire della difesa, il Giudice d’Appello avrebbe valorizzato il mero dato onomastico connotativo– ovvero la coincidenza del nome del profilo social con il nome dell’imputato- assumendo, in assenza di prove, che il ricorrente non si fosse dissociato neppure successivamente dalla pubblicazione abusiva o che lo stesso ne fosse. Al riguardo, la V Sezione Penale ha confermato l’impossibilità di considerare uno scenario dei fatti differente da quello già ricostruito nei gradi di giudizio precedenti, stante l’assenza di qualsiasi elemento obiettivo di conforto alla tesi del furto di identità, nonché la presenza di dettagli con «un’insuperabile portata individualizzante», quali il contenuto stesso delle pubblicazioni che, con dovizia di particolari, riportano episodi dei quali lo stesso imputato era stato protagonista ed altre iniziative giudiziarie dal medesimo intraprese. Il ricorrente, dunque, avrebbe dovuto provare in concreto il furto di identità, non essendo convincente la mera affermazione di esserne stato vittima2.

Circa la riconducibilità del profilo web dell’autore del messaggio all’ identità fisica dell’imputato, il ricorrente lamentava l’omessa assunzione di prove decisive, quali i dati relativi all’indirizzo IP utilizzato, la titolarità della linea telefonica della connessione, l’accertamento del luogo fisico di collegamento del dispositivo. Tuttavia, secondo gli Ermellini, sebbene tali elementi siano di importante rilievo in via generale, essi non sono decisivi nel caso di specie proprio in virtù della portata individualizzante dei dettagli in precedenza richiamati, ricadendo la doglianza nella prospettazione di un mero dissenso mancante di specificità.

Infine, la Corte ha ricordato che, in materia di diffamazione, il giudice di legittimità ha il compito di valutare l’offensività della frase incriminata poiché è di sua competenza procedere, in primis, a considerare la sussistenza o meno della materialità della condotta contestata e, nel caso di specie, della portata offensiva delle frasi ritenute diffamatorie. Provata l’attitudine del testo integrale alla lesione della reputazione della parte civile, la Cassazione, dunque, ha confermato la condanna dell’imputato con una rideterminazione del quantum della multa per la mancata applicazione della riduzione della pena conseguente alla scelta del rito abbreviato.

Indubbiamente la sentenza fornisce preziose indicazioni, soprattutto sul versante probatorio, in uno scenario investigativo che richiede sempre più l’utilizzo di strumenti tecnologici, rilevanti in caso non solo di commissione dei cd. crimini informatici, ma anche di reati tradizionali. La diffamazione via web, forma di crimine tradizionale realizzato con mezzi comunicativi moderni, è intuitiva evoluzione di una condotta illecita, la cui analisi dottrinale e giurisprudenziale ha dovuto tenere in considerazione, e continuamente considera, taluni condizionamenti e adattamenti che la particolare natura della “rete” comporta. Pertanto, attenzione a considerare Internet luogo dove “ognuno ha il diritto di dire la propria” perché anche nel Far West digitale la libera manifestazione di pensiero trova un limite nel rispetto dell’onore, bene giuridico meritevole di tutela penale, al netto di un complesso bilanciamento con il diritto di cronaca, di critica e di satira.

Paola Patriarca

2 Al riguardo si segnala la sentenza della Cass. Pen. V sez. n. 40309/2022, depositata solo lo scorso 25 ottobre, che, ribadendo un consolidato orientamento della Corte, ha confermato che l’omessa denuncia di “furto di identità” da parte dell’intestatario della bacheca su cui è stato pubblicato il post incriminato può costituire un valido elemento indiziario, a nulla valendo limitarsi sic et simpliciter a disconoscere la paternità delle predette affermazioni, senza apportare alcun concreto intervento utile a dimostrare la propria estraneità ai fatti oggetto di causa. Consultabile al seguente link: http://www.italgiure.giustizia.it/xway/application/nif/clean/hc.dll?verbo=attach&db=snpen&id=./20221025/snpen@s50@a2022@n40309@tS.clean.pdf

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