Intelligenza artificiale e titolarità dei brevetti. Un caso interessante, in Inghilterra, solleva il problema della titolarità dei diritti da parte delle macchine e, in particolare, degli strumenti di intelligenza artificiale
La decisione del 21 settembre scorso della High Court inglese viene a sancire (forse) la fine di una saga giudiziale, che potrebbe costituire un precedente importante. La pronuncia di appello è relativa al rigetto, da parte dell’Intellectual Property Office, di una domanda volta ad attribuire ad una macchina (DABUS) e non al suo creatore i diritti derivanti dalla registrazione di due brevetti.
A giudizio della High Court – che ha confermato il rigetto dell’IPO – solo il proprietario della macchina e non la macchina stessa può essere titolare dei diritti di proprietà intellettuale, atteso che a quest’ultima mancherebbe la personalità giuridica.
La questione, che apparentemente potrebbe apparire scontata e oziosa, a ben vedere non lo è. Seguendo il ragionamento argomentativo dei giudici, infatti, si ricava che i diritti potrebbero essere assegnati al proprietario della macchina esclusivamente perché lo stesso è, giuridicamente, potenzialmente titolare di diritti. Tuttavia, la stessa decisione non manca di manifestare il proprio imbarazzo rispetto alla questione, affermando che la legislazione vigente (UK Patent Act 1977) non prende in considerazione le invenzioni prodotte dall’intelligenza artificiale, anche se “i tempi sono cambiati e la tecnologia è andata avanti” e, quindi, il problema andrebbe “discusso in modo più ampio”, in modo che “qualsiasi modifica alla legge sia considerata nel contesto di tale dibattito, e non adattata arbitrariamente nella legislazione esistente”. Il rimando, probabilmente, è alla consultazione avviata dal Governo inglese “Artificial intelligence and intellectual property: call for views”, che dovrebbe rappresentare un primo tavolo di confronto su problematiche e soluzioni.
Il tema principale affrontato dalla decisione, peraltro, attiene a una fattispecie nuova, almeno tra quelle sottoposte al vaglio dell’IPO. Difatti, l’Office, in passato, ha ammesso la brevettabilità di soluzioni nelle quali l’intervento umano selezionava le metriche della macchina, dettando i parametri all’algoritmo di apprendimento automatico per risolvere un particolare problema tecnico. Nel caso che ci interessa, invece, la macchina è, per dir così, autonoma: da ciò la scelta, forse provocatoria, di invocare l’assegnazione dei diritti non ad una persona fisica o giuridica, ma direttamente ad un soggetto privo della personalità giuridica.
Restano, a questo punto due interrogativi, il primo da affrontare nel breve periodo, l’altro, invece, nel lungo periodo. È ammissibile che un soggetto che non interviene attraverso processi selettivi possa divenire titolare di diritti d’autore? La domanda trova risposta, probabilmente, nelle radici della proprietà intellettuale, il cui fine dovrebbe essere quello di premiare lo sforzo creativo. La soluzione cui perviene la High Court, infatti, sembra essere mossa solo dalla necessità di individuare un soggetto che possa essere titolare di diritti e che possa eventualmente compiere atti di disposizione su tali diritti.
La domanda, più intrigante, da affrontare nel lungo periodo è altra: possiamo iniziare a ritenere che vi sia un processo, anche biologico, che stia portando al riconoscimento di forme di personalità anche a soggetti non umani? Un quesito di tutt’altro che semplice soluzione, che richiede uno sforzo interpretativo non formalistico e libero da “gabbie” giuridiche.