La Suprema Corte ha stabilito la responsabilità degli Internet Service Providers per la violazione dei diritti d’autore in caso di ruolo “attivo” nella diffusione illecita dei contenuti.

La Corte di Cassazione, per tramite dell’ordinanza 39763/2021, torna a pronunciarsi sulla responsabilità dei gestori delle piattaforme (c.d. “hosting providers”), introducendo un principio, in merito alla risarcibilità e alla liquidazione dei danni subiti dai titolari dei diritti, senz’altro innovativo e dalla portata molto ampia (e discutibile).

In fatto, la piattaforma citata in giudizio metteva a disposizione del pubblico, liberamente e senza restrizioni di accesso, contenuti di titolarità di una nota società televisiva, la quale è solita diffondere i propri contenuti anche online.

Quest’ultima inviava ai gestori della piattaforma alcune diffide, di natura generica, senza tra l’altro indicare gli URL sui quali sarebbero stati accessibili i propri contenuti. La piattaforma non rimuoveva tali contenuti (e, da quel che si comprende dalla decisione, non rispondeva alle diffide), che continuavano ad essere quindi diffusi tramite la piattaforma stessa e messi a disposizione del pubblico.

In sua difesa, la piattaforma eccepiva, infatti, di svolgere un mero ruolo tecnico (i.e. “passivo”), così come previsto dall’art. 16 del D. Lgs. 70/2003, “Attuazione della direttiva 2000/31/CE relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione nel mercato interno, con particolare riferimento al commercio elettronico” e di non essere tenuta ad un obbligo generale di sorveglianza sui contenuti pubblicati dai propri utenti, così come previsto dall’art. 17 del medesimo decreto.

Sia in primo grado (Tribunale di Roma) sia in sede di Appello, i giudici del merito hanno ritenuto che la piattaforma fosse responsabile invece per hosting “attivo”, ossia non limitato alla mera fornitura tecnica di un servizio. Tale inquadramento sarebbe dipeso dal fatto che i contenuti audio e video diffusi sarebbero stati selezionati dalla stessa piattaforma e collegati alla pubblicità in base ai dati di maggiore o minore versione.

Pertanto, il gestore della piattaforma avrebbe volutamente concorso nella commissione dell’illecito, assumendo così un ruolo attivo.

La Suprema Corte ha confermato questa lettura, stendendo anche un’elencazione – non tassativa, a dire della stessa motivazione – delle attività che renderebbero non meramente passiva l’attività svolta dal fornitore del servizio: filtraggio; selezione; indicizzazione; estrapolazione o promozione dei contenuti.

La decisione precisa che tale attività sarebbe stata condotta con una “gestione imprenditoriale del servizio”: non a caso, si afferma – attualizzando il ruolo svolto dagli Internet Service Providers – che le attività di data mining e l’elaborazione di big data consentirebbero a tali soggetti di “trarre enormi guadagni dalla loro attività di hosting”.

Inoltre, la Corte precisa che, in sede di giudizio, non sarebbe necessaria l’indicazione degli URL, essendo sufficiente che il prestatore del servizio sia a conoscenza dell’illiceità dei contenuti e sia stato informato dal titolare dei diritti d’autore.

Si tratta di affermazioni che, tuttavia, lasciano perplessi per più di una ragione.

Innanzitutto, la circostanza che i gestori delle piattaforme traggano guadagno – anche mediante inserimento e diffusione di messaggi pubblicitari – dai contenuti pubblicati da soggetti terzi non dovrebbe incidere sul regime della responsabilità, se non in termini di diligenza professionale che può essere richiesta agli stessi. Allo stesso modo, ritenere che i titolari dei diritti, in sede giudiziale, non abbiano l’onere di localizzare, per mezzo degli URL, i contenuti protetti che si presumono essere stati diffusi illecitamente, rischia di determinare che gli Internet Service Provider siano tenuti a effettuare un monitoraggio continuo, ultroneo rispetto le loro responsabilità e che renderebbe l’esenzione di cui all’art. 17 del D. Lgs. 70/2003, in buona sostanza, inapplicabile.

Pertanto, stando a quanto previsto dalla decisione, dovrebbe ritenersi che anche servizi messi a disposizione da piattaforme come YouTube, dove i contenuti sono caricati dagli utenti, possano essere destinatari di diffide generiche e incorrere in responsabilità nel caso in cui non individuino i contenuti di titolarità del segnalante.

Sebbene la nuova disciplina introdotta dal D. Lgs. 8 novembre 2021, n. 177Attuazione della direttiva (UE) 2019/790 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 17 aprile 2019, sul diritto d’autore e sui diritti connessi nel mercato unico digitale e che modifica le direttive 96/9/CE e 2001/29/CE”, non sia applicabile alla fattispecie, a chi scrive sembra evidente che il titolo su cui si fonda la responsabilità dell’operatore (e, quindi, su cui poggiano le ulteriori statuizioni della Corte) sia da individuare nella mera scelta, da parte del gestore della piattaforma, di non rimuovere, in via preventiva, alcun contenuto.

È evidente che, ragionando diversamente e ritenendo che il gestore sia responsabile sulla scorta di una mera e generica diffida in cui i contenuti lesi non vengono compiutamente individuati, finirebbe per trasformare completamente il criterio di imputazione della responsabilità su cui si fonda il D. Lgs. 70/2003 (e prima ancora la direttiva comunitaria 2000/31/CE), passando da un criterio di imputazione di natura colposo a uno di natura oggettiva, nel quale la piattaforma risponde in ogni caso per il comportamento dei propri utenti.

Il punto della decisione che però ha richiamato maggiormente l’attenzione degli interpreti riguarda il sistema di computo del danno.

La Suprema Corte, con la precedente decisione n. 21833/2021 del 29 luglio 2021, aveva affermato che l’art. 158 della Legge 633/1941 sul diritto d’autore prevede un doppio sistema, della retroversione degli utili e del prezzo del consenso, nella cornice della liquidazione equitativa di cui all’art. 1226 c.c.

Nella sentenza in commento, invece, questo sistema viene contraddetto. Si puntualizza infatti che il prezzo del consenso (ossia il valore economico della licenza che si sarebbe dovuta ottenere per utilizzare legittimamente l’opera protetta) è un valore minimo, laddove, invece, la retroversione degli utili avrebbe una finalità punitiva.

Così nelle parole dei giudici: “la violazione del diritto d’esclusiva che spetta al suo titolare costituisce danno in re ipsa, senza che incomba al danneggiato altra prova del lucro cessante che quella della sua estensione, a meno che l’autore della violazione fornisca la dimostrazione dell’insussistenza, nel caso concreto, di danni risarcibili, e tale pregiudizio è suscettibile di liquidazione in via forfettaria con il criterio del prezzo del consenso di cui alla L. 22 aprile 1941, n. 633, art. 158, comma 2, terzo periodo, che costituisce la soglia minima di ristoro”.

Si tratta di un principio che, a parere di chi scrive, risulta pericoloso non solo (e non tanto) perché sostanzia una natura punitiva del risarcimento del danno nel sistema del diritto d’autore, ma, soprattutto, perché ribalta il consolidato principio dell’onere della prova della quantificazione del danno.

Inoltre, di fatto, si determina un doppio effetto punitivo: non solo retroversione degli utili ottenuti dal danneggiante, ma altresì costo della licenza che, naturalmente, è un parametro arbitrario, salvo a voler immaginare che tutti gli utenti che hanno fruito illecitamente di un contenuto protetto avrebbero davvero corrisposto il prezzo della relativa licenza. In altri termini, è davvero sostenibile che tutti coloro che guardano pochi minuti o parte di un video televisivo o di un film avrebbero davvero acquistato quel prodotto?

La risposta appare scontata e, quindi, come si diceva, il rischio è di creare non solo un effetto punitivo (per mezzo della retroversione degli utili), ma un doppio effetto punitivo, andando a moltiplicare il numero delle violazioni per il costo delle licenze.

In definitiva, sembra che siano ancora molte le zone grigie che permangono dopo questa decisione, che ben avrebbe potuto fare definitiva chiarezza sia sulla condotta che l’Internet Service Provider deve tenere al fine di non incorrere in responsabilità sia sulla determinazione (realmente) equitativa del danno.

Dario Malandrino

Author Dario Malandrino

More posts by Dario Malandrino