Con l’inserimento della clausola “simul stabunt, simul cadent” nei contratti di società può essere convenuto che il venir meno di uno o più amministratori comporti l’automatica cessazione dall’incarico dell’intero organo amministrativo. Sebbene l’inserimento di una tale pattuizione all’interno dei contratti di società sia considerato pienamente legittimo, la dottrina e la giurisprudenza mettono in guardia sulle conseguenze di utilizzi abusivi o strumentali della clausola in esame.
Allo scopo di consentire all’assemblea un controllo più incisivo sulla composizione del consiglio d’amministrazione della società, e, soprattutto, “al fine di mantenere costanti e inalterati gli equilibri interni all’organo gestorio originariamente voluti dalla delibera assembleare di nomina” (cfr. Tribunale di Milano Sent. n. 4955/2016), nello statuto sociale si può stabilire che il venir meno di uno o più amministratori comporti l’automatica cessazione dall’incarico dell’intero Cda.
Tal tipo di pattuizione prende il nome di clausola “simul stabunt, simul cadent”.
Dopo la riforma del diritto societario, la clausola in esame, dapprima riconosciuta solo a livello dottrinale e giurisprudenziale, ha trovato espressa legittimazione nell’art. 2386, comma 4, c.c. (in tema di S.p.A., ma applicabile analogicamente anche alle S.r.l.).
Tale norma, in particolare, prevede la possibilità di introdurre nello statuto una causa naturale di cessazione dall’incarico di amministratore, secondo cui, a seguito del venir meno anche di un solo membro del consiglio, si determina l’immediata decadenza dell’intero organo amministrativo.
Sebbene la fattispecie in esame non costituisca un’ipotesi di revoca dell’amministratore per giusta causa (visto che la cessazione dall’incarico consegue, automaticamente e semplicemente, alla cessazione di uno o più colleghi), l’amministratore revocato per effetto del meccanismo innescato dalla clausola “simul stabunt simul cadent” non ha, in generale, diritto al risarcimento del danno, a differenza di quanto previsto dall’art. 2383, comma 3, c.c. (secondo il quale “Gli amministratori […] sono revocabili dall’assemblea in qualunque tempo, anche se nominati nell’atto costitutivo, salvo il diritto dell’amministratore al risarcimento dei danni, se la revoca avviene senza giusta causa”).
La mancata previsione del diritto al risarcimento del danno nei confronti dell’amministratore revocato trova giustificazione nella considerazione che gli amministratori, accettando l’incarico all’atto di nomina, esprimono anche la volontà di assoggettarsi allo statuto sociale e, ove prevista, alla clausola “simul stabunt, simul cadent” che disciplina un’ipotesi di cessazione anticipata dall’incarico non assistita da alcun risarcimento del danno.
Nonostante la legittimità della pattuizione in esame sia ormai consolidata e abbia trovato conferma in numerose pronunce, il meccanismo di revoca dalla stessa innescato presta il fianco a ipotesi di utilizzo abusivo o strumentale.
Non di rado, infatti, i giudici si sono trovati difronte ad utilizzi della clausola estranei alla ratio ad essa sottesa e volti esclusivamente ad ottenere la revoca anticipata di un amministratore servendosi della compiacenza degli altri membri dell’organo amministrativo, allo scopo di aggirare la norma che prevede il diritto al risarcimento del danno in capo all’amministratore revocato senza giusta causa.
Ci si è chiesti, pertanto se, e in quali casi, l’amministratore “automaticamente” revocato in esecuzione della clausola “simul stabunt simul cadent”, abbia comunque diritto al risarcimento del danno ai sensi dell’art. 2383, comma 3, c.c..
In linea di principio, la giurisprudenza è unanime nel ritenere che un utilizzo strumentale o non legittimo della pattuizione in esame, in quanto estraneo al suo scopo principale e diretto ad aggirare l’operatività dell’art. 2383, comma 3, c.c., espone la società all’obbligo di risarcire l’amministratore revocato, nei casi di revoca senza giusta causa.
In particolare, il diritto al risarcimento del danno deve essere riconosciuto agli amministratori, decaduti in forza della clausola simul stabunt simul cadent, quando le dimissioni di uno di essi (che hanno determinato la cessazione dall’incarico anche degli altri amministratori) sono state offerte abusivamente e strumentalmente – cioè per scopi diversi da quelli per i quali è riconosciuto il diritto a rinunciare all’incarico –, ovvero per eludere l’obbligo al risarcimento del danno connesso alla revoca senza giusta causa
Viceversa, anche in assenza di giusta causa, non sorge alcun diritto al risarcimento del danno a favore dell’amministratore cessato per effetto di un uso legittimo della clausola (di per sé lecita), in quanto l’amministratore, accettando il conferimento dell’incarico e aderendo implicitamente alle clausole dello statuto, ha accettato anche l’eventualità di una cessazione anticipata dall’ufficio senza corresponsione di alcun risarcimento.
I principi sin qui esposti hanno da ultimo trovato conferma nella recente sentenza del Tribunale di Milano, n. 2565 del 24 aprile 2020.
In tale pronuncia il Tribunale di Milano, oltre a richiamare il proprio orientamento in merito alla ratio della clausola in esame – ossia quella di preservare gli equilibri interni dell’organo gestorio, stabiliti al momento della nomina dei suoi singoli membri – ha confermato il principio secondo il quale, affinché possa configurarsi un’ipotesi di utilizzo abusivo o strumentale della clausola, è necessario dimostrare che “le dimissioni di uno o più amministratori siano state abusive o strumentali, ossia dettate unicamente o prevalentemente dallo scopo di eliminare gli amministratori sgraditi in assenza di una giusta causa, eludendo in tal modo anche l’obbligo di corresponsione all’amministratore colpito degli emolumenti residui (oltre che del risarcimento del danno) che gli spetterebbero se fosse cessato dalla carica per effetto di una revoca ex art. 2383 comma 3, c.c.”.